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L’associazione è nata solo quattro mesi fa, ma la ricerca va avanti da anni: l’obiettivo dichiarato di Piwi Italia è ampliare la conoscenza dei vitigni resistenti e far pressione, anche a livello politico, affinché siano diffusi sempre di più. Al momento, infatti, queste varietà non si possono utilizzare a livello nazionale, ma sono state autorizzate solo da alcune regioni (Trentino, l’Alto Adige, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna, Marche, l’Abruzzo, Lazio e Campania). Tuttavia, il loro impiego è diventato sempre più urgente di fronte al cambiamento climatico e all’esigenza di un approccio più sostenibile. I Piwi (dal tedesco pilzwiderstandsfähig) sono, infatti, incroci naturali tra vinifere europee e altre vitis di origini americane o asiatiche. Dalla loro hanno la capacità di difendersi dalle principali malattie funginee e questo consentirebbe una significativa riduzione dell’uso dei pesticidi. Ma la strada è ancora in salita. Ne abbiamo parlato con Marco Stefanini, presidente dell’associazione e ricercatore alla fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige (dove peraltro ha sede Piwi Italia).
Come sono arrivati i vitigni resistenti in Italia?
Negli anni ‘30 in Italia sono uscite leggi che impedivano la coltivazione di vitis che non fosse vinifera per il vino da commercio. La conseguenza è stata la notevole riduzione della presenza degli ibridi. In Francia, invece, nel 2000 ce n’erano più di mille ettari, un ibrido veniva utilizzato come base per l’Armagnac, quindi la superficie era ampia. In Germania le condizioni climatiche erano favorevoli alla peronospora e i tedeschi hanno mantenuto l’attenzione e continuato di fatto questo lavoro di ibridazione.
Quindi, in Germania la ricerca è andata avanti. In Italia, invece, non c’era questa esigenza?
Sì, ma nell’88, quando ho iniziato a fare i primi incroci, ero additato come quello che spendeva i soldi del contribuente per nulla, perché tanto queste varietà non si potevano coltivare, tanto che dal ‘91 ho dovuto sospendere la ricerca. Dal ‘98 è cambiata la direzione: ci hanno dato carta bianca, ma eravamo bloccati perché si poteva coltivare solo Vitis vinifera. Nel 2008 si è finalmente aperta la strada: in Europa è stata consentita la coltivazione e la vinificazione come vino generico, legato a eventuali Igt, di queste viti resistenti. Nel 2021 l’Europa ha consentito di inserire queste varietà anche nelle denominazioni d’origine. Così molti Paesi, tra cui Francia e Germania lo hanno fatto. Per esempio, non molti sanno che dal 2021 nella Champagne è consentita una percentuale di voltis e che nella Aoc Bordeaux è stato prevista la varietà l’artaban.
E in Italia?
In Italia c’è il Testo unico della vite e del vino, dove si dice che nelle Doc il vino può essere fatto solo con vitis vinifera al 100%. È questo è lo scoglio che impedisce gli organi preposti a inserire le varietà resistenti nelle denominazioni di origine. Tuttavia, questo non ha impedito lo sviluppo, sia in termini di ricerca sia di diffusione. Oggi nel nostro Paese abbiamo 3 milioni di innesti di varietà resistenti, tra i 50 e i 60 ettari l’anno. Ci sono più di 200 aziende produttrici e circa 350 vini con etichetta Piwi da varietà resistenti. Ma quelle autorizzate, purtroppo, sono solo 36; il problema è che ogni regione autorizza solo quelle che ritiene più idonee. C’è un problema soprattutto al Sud.
In che senso?
Lì le regioni non stanno autorizzando le varietà resistenti. Dicono che non hanno l’incentivo per poter indurre la coltivazione. Però l’incentivo per pagare i danni della peronospora sì.
Tra 50 anni come vede il vigneto Italia?
Penso che se il cambiamento climatico procedesse verso un riscaldamento ulteriore, sicuramente le piante dovranno essere aiutate. Bisognerà che vada loro incontro la genetica. Dove si va? credo che l’opportunità che ha la viticoltura sia quella di andare verso qualcosa di nuovo, che possa rendere la vita e la coltivazione più sostenibile. Nel nostro Paese c’è sicuramente un problema di ritardo nel poter dare alla viticoltura più alternative efficaci rispetto a quelle attuali. Non so se nel 2050 riusciremo ad avere 300 varietà resistenti da poter offrire, ma sicuramente sono cosciente che in certe regioni, penso ad esempio alla Toscana, finché non ci saranno varietà resistenti figlie delle loro uve tradizionali, si farà fatica ad accettare che il vigneto si riempia di varietà resistenti figlie di merlot, cabernet, ecc. Su questo non ho un giudizio negativo, ce l’ho su chi, a priori, pensa che i Piwi non vadano bene.
Siamo davanti ai vini del futuro?
No, non sono del futuro, sono del presente. È che il concetto di terroir è cambiato. Per la mia generazione era un concetto stabile, statico: Bordeaux? Cabernet e merlot; Champagne? Chardonnay e pinot; Toscana? Sangiovese. Tant’è che l’introduzione di qualcosa di nuovo deve essere giustificata con il miglioramento della situazione attuale. Credo che in questi 40 anni di lavoro nell’ambito della viticoltura, a San Michele, ho visto la vendemmia spostarsi da inizio novembre a fine settembre. Allora è cambiato uno dei fattori fondamentali di questo triangolo del terroir – terreno, clima, e vitigno. Il terreno possiamo dire che è stabile. Se cambia il clima, per forza dobbiamo cercare di cambiare il genotipo, se no l’interazione non è più ottimale. Da questo punto di vista, l’innovazione porta la resistenza e la riduzione dell’impatto ambientale. La possibilità del viticoltore è verificare quali siano le varietà più adatte nella sua zona e prendere in considerazione che, per il bene della viticoltura, ci possano essere nuove varietà evolute da seme, in maniera naturale, che possono portare avanti la viticoltura da qui a chissà quanti anni. Io mi auguro che siano in tanti a farlo.
Torniamo all’estero. I francesi come si sono approcciati ai vitigni resistenti?
I francesi hanno creato l’Inrae, l’Istituto nazionale della ricerca per l’agricoltura e l’ambiente, che ha creato una decina di genitori portatori di resistenza e li ha distribuiti nelle diverse zone dove li incroceranno: Champagne, Borgogna, Valle del Rodano e altre, in modo da creare i figli di varietà tradizionali. È ciò che noi stiamo già facendo, però non riusciamo a dirlo, anzi, certi consorzi ci dicono di non dire nulla finché non li abbiamo. I francesi suonano le trombe, piantano e questo è il risultato. Noi di genitori come voltis e artaban ne abbiamo duecento, che poi incrociamo con sangiovese, montepulciano, verdicchio, e così via. Quindi, ancora una volta i francesi sanno vendersi meglio. Siamo noi che ci facciamo le paranoie: il 5% di un souvigner gris nel Prosecco creerebbe davvero problemi? In realtà sarebbe sempre Prosecco. Eppure, oggi, non si può fare.
Dunque, l’ostacolo principale al percorso verso la sostenibilità è il pregiudizio?
Guardi, la più grande cantina sociale della mia zona non vuole che si impianti Piwi perché il direttore fra due anni va in pensione e non vuole mettersi a fare una nuova linea. Allora, se i criteri di scelta sono questi, vale tutto. In Trentino abbiamo undicimila ettari vitati, sa quanti ne dovremmo togliere se rispettassimo i 30 metri dalle case, dalle ciclabili, dalle sorgenti? Almeno 2000. Questa è sostenibilità? Vogliamo rendere sostenibile questa cosa o andiamo avanti a deroghe? A mio avviso, la sostenibilità è una risposta logica, culturalmente e socialmente adeguata. E nello specifico, non ha senso proseguire col fare trattamenti se non servono e se si possono trovare altre soluzioni.
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